The empowering journey as a tool for GCE.

Dialogues with the Scientific Committee: Interview with Pierluigi Musarò
Vittori, Luca (2023). Il viaggio responsabilizzante come strumento per l’ECG. Dialoghi con il comitato scientifico: Intervista a Pierluigi Musarò. In: GLOCITED - Editorial Series on Global Citizenship Education. DOI 10.6092/unibo/amsacta/7343

ABSTRACT

Professor of Sociology of Cultural and Communicative Processes, Musarò develops the concept of Global Citizenship Education around the themes of Mobility Justice and peaceful coexistence between cultures while respecting the environment. The Professor demonstrates the urgency of challenging ethnocentric and anthropocentric approaches by moving towards a global normative framework that recognises the equal rights of all living beings, human and non-human. Education for global citizenship is therefore a transversal educational approach that aims to build a cosmopolitanism based on the awareness that we live on an impoverished planet that recognises the value of diversity. Musarò proposes as an educational strategy the experience of the empowering journey

TESTO

Pierluigi Musarò è professore ordinario presso l’Università di Bologna dove insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi ed è membro del Collegio di Dottorato di Sociologia e Ricerca Sociale. In ambito accademico collabora con università negli USA, Australia e UK, mentre in Italia è stato presidente dell’Associazione YODA (Youth for Developing Alchemy) e direttore di IT.A.CÀ (Festival del turismo responsabile). Inoltre, è membro del comitato scientifico della Cattedra UNESCO in Global Citizenship Education (GCE) in Higher Education assegnata all’Università di Bologna.

Professore, potrebbe spiegare che cosa intende per GCE facendo riferimento ad esperienze e progetti che ne esprimono il carattere principale?

Nella mia posizione di sociologo interessato a tematiche racchiuse in ciò che viene definita Mobility Justice, aspetti centrali di ciò che intendo per GCE sono la mobilità dell’essere umano e la convivenza pacifica nel rispetto dell’ambiente.
Cerco di spiegarmi: il turista, il migrante o il rifugiato sono tutte figure che si muovono e attraversano confini. Da un lato c’è chi sceglie di farlo per curiosità nei confronti del mondo, per aprirsi agli altri, per condividere peculiarità culturali e per convivere pacificamente in terra straniera. In questo senso, il turismo può essere una risorsa per educare alla consapevolezza e al rispetto di ciò che ci circonda. Dall’altro lato c’è chi è costretto a muoversi, ovvero persone che intraprendono un viaggio dal carattere non circolare. Nella nuova società, migrati e rifugiati risultano spesso portatori di una percezione distorta e vengono etichettate come pericolose minacce oppure come vittime verso cui provare pietà. Tuttavia, è bene ricordare che i confini sono più o meno facilmente attraversabili in base al passaporto che si dispone, venendo così a mancare il riconoscimento della libertà di andare ed il diritto a restare. E come si può parlare di cittadinanza globale senza riconoscere a tutti le stesse possibilità e gli stessi diritti?

Nei discorsi sui diritti umani e in vari altri ambiti che riguardano società sempre più multiculturali l’incapacità di provincializzare quello che siamo, provincializzare l’Europa, è una parte del problema. L’etnocentrismo che caratterizza le società occidentali ha forti ripercussioni sia nella gestione dei confini, pensiamo alla difficoltà di un africano ad ottenere un visto nell’Europa di Schengen, sia nell’approccio alle sfide legate alla crisi climatica, dove pochi Paesi che da secoli producono gran parte delle emissioni chiedono ai Paesi più poveri di contribuire in egual modo.

Per queste ragioni credo che, per mettere in discussione i modelli di sviluppo che ci caratterizzano, sia prima necessario mettere in discussione la centralità della cultura occidentale rispetto alle altre e la centralità dell’uomo rispetto alla natura. Le maggiori sfide che ci troviamo ad affrontare oggi e mi riferisco alle isole di plastica che navigano gli oceani, all’accoglienza di persone costrette a migrare, all’inquinamento atmosferico e alle ripercussioni sulla salute, sono il frutto di approcci etnocentrici e antropocentrici.

Perciò, per rispondere alla domanda, per GCE intendo un ramo dell’educazione che ambisce ad un cosmopolitismo consapevole di vivere in una terra impoverita nella quale convivono esseri umani e non umani. Convivenza basata sul rispetto e l’ospitalità reciproca e, come lo chiamerebbe Achille Mbembe, sul diritto di respirare. Concludo portando l’esperienza dell’associazione YODA di cui sono stato a lungo presidente. L’associazione organizza campi di volontariato, soggiorni e scambi internazionali per giovani di diverse fasce d’età, utilizzando il viaggio come elemento centrale per sensibilizzare i partecipanti a valori quali condivisione, comprensione e rispetto della natura. Dal mio punto di vista, le esperienze organizzate dall’associazione sono un esempio concreto di come educare alla cittadinanza globale.

Secondo lei quali sono gli elementi della sua visione che possono contribuire ad affrontare le sfide storiche delle nostre società? E quali invece i rischi ed i limiti?

Mettere al centro dell’approccio alla GCE la convivenza tra umani e non umani ed il reciproco rispetto può contribuire ad affrontare quella sfida che definisco percorso etico tra culture. Considero questa sfida fondamentale in quanto viviamo in società fortemente eterogenee e la capacità di confrontarsi con la diversità è sempre più una competenza necessaria per vivere in sintonia.

Porto un esempio pratico che sono certo rispecchi la situazione italiana e possa chiarire il pensiero. Recentemente mi sono imbattuto nel testo di religione di una classe prima elementare all’interno della quale credi e culture risultano molteplici. Sfogliando il libro, però, è evidente come i contenuti fanno riferimento quasi esclusivamente al credo cristiano non considerando altre religioni come quella musulmana, ebraica o il pensiero di Confucio, Buddha o Seneca. Secondo la mia opinione, questo spazio andrebbe aperto al dialogo interreligioso portando esempi di come filosofie lontane nel tempo e nello spazio condividano discorsi di pace e uguaglianza e come esse possano convivere all’interno di città, parchi e classi scolastiche. Ci tengo a precisare che l’ora di religione è solo un esempio e che il medesimo approccio può e deve essere trasferito a tutti gli insegnamenti. Solo grazie ad un percorso etico tra culture che evidenzia la diversità come valore sarà possibile affrontare il concetto di ospitalità inteso come apertura incondizionata verso l’altro. Secondo alcune correnti di pensiero, agendo in questa direzione si corre il rischio di perdere le proprie radici, credenze, tradizioni e identità. Io personalmente credo che gli alberi abbiano le radici, gli esseri umani hanno le gambe e sono fatti per camminare. Le radici simboleggiano il bagaglio che ci portiamo dietro che non significa non riconoscere il legame del singolo con la propria terra, anzi, sta proprio ad indicare il dovere di prendersene cura.

Così intesa, la GCE può avere gli strumenti per creare una coscienza comune che mira al riconoscimento e alla difesa dei diritti di tutti, compresi quelli della terra. Ecco, una sfida credo sia quella di adottare un pluralismo giuridico che riconosca i diritti della natura, in quanto fino ad oggi l’ambiente naturale è sempre stato soggetto ai diritti funzionali all’uomo. Ciò significa svincolarsi dall’antropocentrismo e provare a re-immaginare categorie di sviluppo che riconoscano all’acqua del mare, ai pesci e agli uccelli gli stessi diritti dell’uomo. L’essere umano pare al centro di tutto ma in realtà è una componente del sistema terra, componente sempre più piccola se ampliamo lo sguardo. Solo nel momento in cui agiremo come attori consapevoli di far parte di un sistema di esseri viventi non solo umani saremo in grado di relativizzare la nostra arroganza e rivedere un modello di sviluppo che non ci porti all’estinzione a breve termine.

All’interno del sito della cattedra sono state raccolte alcune delle sue pubblicazioni che si collegano ai temi della cittadinanza attiva e globale. Mi può raccontare qual è il filo conduttore che lega queste pubblicazioni e come si è evoluto il suo pensiero nel tempo?

Direi che la passione per il viaggio sia il filo che lega tutta la mia produzione scientifica. Grazie a questa ho coltivato un lato da attivista che negli anni mi ha consentito di lavorare in collaborazione con numerose ONG e portato in campi profughi in Algeria, Palestina, Mozambico e Bosnia. Esperienze che senza alcun dubbio hanno dato forma al mio pensiero.
Dall’altro lato c’è invece l’interesse verso la ricerca scientifica su tematiche quali i confini, i diritti umani e come questi temi vengono spettacolarizzati dai media producendo un divario tra realtà e percezione. A proposito di questo, se in Italia la maggior parte delle persone crede che la popolazione sia composta dal 30% di migranti (quando in realtà è il 7%) e che questi siano tutti africani, neri, maschi e musulmani che giungono con i barconi mentre le statistiche dicono altro, si può capire il potere che tali mezzi hanno sulla percezione di un dato fenomeno. Inoltre, ho svolto ricerche sul tema del turismo ambito osannato perché fonte di capitali in entrata e lustro per la popolazione ospitante, ma che in realtà nasconde tante e forti contraddizioni, evidenti a Venezia così come a Barcellona.

La presa di coscienza di tali incoerenze abbinata alle esperienze di volontariato ha fatto si che mi ponessi domande quali: perché queste contraddizioni? Perché queste ingiustizie? Cosa consideriamo legittimo e cosa no? Qui subentra il concetto di Mobility Justice e dei diversi regimi di mobilità che hanno caratterizzato gran parte delle mie pubblicazioni, compresa la più recente dal titolo “Ospitalità mediatica: le migrazioni nel discorso pubblico”.

Per concludere ricordo il pensiero di Pierre Bourdieu, il quale suggeriva che per fare una buona ricerca sociale è necessario domandarsi che cosa si prova nel profondo e indagarlo con una metodologia scientifica. Negli anni ho fatto questo, riuscendo a mettere insieme la parte di sensibilità personale con la ricerca accademica, collegando ambiti apparentemente slegati ma che in verità sono fortemente interconnessi.


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